Daniel Cossins, in un articolo pubblicato di recente sul New Scientist, si pone questa domanda e definisce “superiorità illusoria” la tendenza a sovrastimare le nostre qualità e a giudicarci in modo più favorevole rispetto a come ci considerano gli altri.
L’ autore spiega che “quando ci illudiamo sulla nostra intelligenza, sul nostro aspetto fisico o sul nostro carisma, lo facciamo per migliorare il nostro valore e il nostro status sociale”.
Cossins si pone – e ci pone- una domanda cruciale:” cercare di conoscere noi stessi vale davvero la pena? Cosa ci guadagniamo a scoprire i nostri difetti mentre ci sforziamo di capire meglio chi siamo?”
Human, in uno studio pubblicato nel 2020 deduce che “conoscere la nostra personalità dovrebbe aiutarci a prendere decisioni migliori nella vita, per esempio su quale lavoro scegliere, con chi stabilire rapporti, come avere interazioni più facili con gli altri, e ci dà un senso soggettivo di coerenza e valore”; l’autore deduce che le persone che “concordano di più con gli altri sulla loro personalità sostengono di essere felici”.
Le prove a conclusione di queste deduzioni si basano però su uno studio di tipo correlazionale, per cui risulta difficile “ sapere se la conoscenza di sé promuove il benessere o se il benessere favorisce la conoscenza di sé”.
Mentre leggevo l’articolo riflettevo a più livelli sulle persone che vedo in studio e mi venivano in mente diverse situazioni rispetto alle quali la domanda iniziale può essere applicata.
Mi sono posta queste domande:
Può essere utile per un adolescente tenere conto di cosa pensano i suoi coetanei di lui?
In che modo le aspettative sociali possono condizionare positivamente e/o negativamente le nostre scelte di vita?
Può “l’illusione ottimale di sé” condizionare in un’ottica di benessere?
Nel cercare di dare una risposta a queste domande ho ragionato su diverse situazioni cliniche.
Ho pensato a una ragazza di 16 anni che si sente isolata ed esclusa dai i suoi coetanei.
In questo caso immaginare cosa le altre persone possono pensare di lei può essere un buon esercizio di contatto con la realtà, può aiutarla a capire in quale modo lei si pone nei confronti degli altri e a domandarsi se ci sono dei cambiamenti, anche minimi, che può apportare per migliorare il suo modo di relazionarsi.
Mi è venuta poi in mente una ragazza di 19 anni che fino a poco tempo fa si sentiva schiacciata dalle richieste del mondo esterno e costretta a interpretare un ruolo che viveva come anacronistico rispetto al suo modo di percepirsi in questa fase della vita.
A lei è bastato trasferirsi in un’altra città per acquisire maggiore confidenza con la sua vera persona e per imparare ad esprimerla senza temere il giudizio altrui.
Ho pensato infine a un ragazzo di 23 anni che aveva moltissima paura di non riuscire a superare un esame universitario per via dei numerosi insuccessi vissuti in precedenza ma a cui è bastato proiettarsi nell’” illusione ottimale”di sé, che lo vedeva superare l’esame con successo, per andare a sostenere l’esame e per superarlo con ottimi voti.
In accordo con Daniel Cossins propongo dunque, come soluzione alla domanda iniziale, un punto di equilibrio tra vedersi positivamente e distorcere cosi tanto la realtà da avere problemi nei rapporti con gli altri.
Bibliografia:
https://www.internazionale.it/tag/autori/daniel-cossins