Può capitare di incontrare un vecchio amico,
un’ex compagno di classe o di lavoro,
il vicino di casa,
il dirimpettaio;
può capitare che alcuni, tra questi, li incontriamo in ascensore;
nulla può creare più imbarazzo di un ascensore, a mio avviso.
Può capitare, per cacciare via l’imbarazzo, la domanda di rito:
” come stai?”
Poi
può capitare che l’ascensore si apra e che ognuno possa andare diritto,
per la propria strada.
Cosa aveva risposto il tipo in ascensore?
Alla domanda.
Bene.
Bene?
Forse non ricordiamo cosa aveva risposto;
forse non abbiamo sentito, ascoltato, badato alla risposta.
Forse abbiamo dato la risposta per scontata,
per certa,
per ovvia.
Bene.
La risposta scontata, certa, prevedibile, prevista, ovvia è:
bene.
Potremmo, una volta, provare a fare un esperimento
con un amico,
con il dirimpettaio,
in ascensore.
Possiamo valutare.
Possiamo,
a monte,
darci la possibilità di valutare se abbiamo voglia di metterci in posizione di ascolto,
di predisporci all’ascolto vero dell’altro.
Dopo il primo step di valutazione possiamo provare a fermarci.
Possiamo provare a fermare:
le nostre orecchie,
il nostro sguardo,
il nostro cuore,
i nostri pensieri,
le nostre emozioni e sensazioni
su quella persona con cui abbiamo provato a scegliere di scambiare,
non a caso,
due parole.
Solo,
unicamente,
su lei.
Come stai?
Possiamo provare a pesare ciascuna delle due parole.
Come,
lasciato solo,
quanto peserà?
Non meno di 10 kg secondo me, forse arriva a 20.
Stai.
Stai,
da solo,
è:
un vortice,
una valanga,
un elefante,
un ippopotamo,
un mare,
un oceano intero.
Il peso più o meno è quello,
secondo me.
Anzi tutti gli elementi citati,
insieme,
danno il giusto peso.
Poi l’incontro.
Come stai?
Davvero,
anzi,
da – vero,
come stai?
È fatta, lo abbiamo detto.
Subito dopo possiamo concederci di respirare.
Profondamente.
E di aspettare e aspettare.
Poi possiamo darle spazio.
Possiamo respirare, aspettare e dare spazio alla risposta.
E alla persona che abbiamo davanti.
Al dirimpettaio in ascensore.
E tempo.
Possiamo aspettare che la persona,
e la sua risposta,
possano prendersi tutto il tempo che gli serve,
prima di arrivare.
Hanno diritto.
E se l’ascensore,
nel frattempo,
si apre,
possiamo correre.
Possiamo correre insieme a lei.
Possiamo correre insieme a quella persona.
E aspettare.
E continuare a darle spazio.
A lei e alla sua risposta.
Possiamo aspettare la vera risposta,
non la forma.
Il silenzio può fare paura;
Io a volte temo il silenzio.
Sento il peso di ogni singolo attimo di silenzio, a volte.
Sento il tonfo degli attimi, degli istanti di silenzio.
Mi viene voglia di contarli per riempire la mente e cacciarli.
Il silenzio è un temerario e conosce tecniche geniali per creare imbarazzo.
È più facile la corsa, la fuga;
È più facile andare che restare.
Aspettare.
Aspetta.
Prova ad aspettare.
Il silenzio crea imbarazzo ed è amico del malessere.
Silenzio e imbarazzo vanno spesso a braccetto insieme.
Sto male.
È una possibilità.
Esiste la possibilità che qualcuno,
o uno,
stia male.
Si può stare male.
Si può dire di stare male.
Lo si può:
urlare,
sussurrare,
scrivere,
mimare,
persino cantare.
Lo si può dire.
Stai male?
Si può ascoltare.
Ci vuole coraggio per ascoltare.
E desiderio.
Può esserci un incontro tra queste possibilità.
E al diavolo l’imbarazzo.
Se la domanda,
che è sempre la stessa,
viene fatta con il peso che merita
- con il peso che ha –
la risposta potrà non essere scontata.
Esistono almeno due possibilità.
Sto male.
È una possibilità.
In studio amo, con i miei clienti, fare un gioco;
la gran parte delle persone che sono venute, che vengono nel mio studio
conoscono bene il mio gioco.
Faccio lo stesso gioco a ogni seduta, o quasi;
sono una terapeuta ridondante su certi temi,
ma penso possa valere la pena di essere ridondanti,
a volte.
Il gioco consiste in questo:
all’arrivo chiedo:
” come stai?”
“Bene.”
“Ok.
Ora,
mettiti comodo.
E respira.
Pensa solo a te e al tuo respiro.
Come stai,
da – vero?”
Nel momento preciso in cui pongo seriamente la domanda,
nel momento in cui pongo la domanda vera,
attraverso i minimi e massimi dettagli del corpo e della voce,
a ogni seduta,
inizia la vera terapia.
Quella domanda è un la:
da tono alla musica.
❤️
Bellissimo articolo. In tema sincronico con il libro che ho ripreso in mano oggi perché ho bisogno di fermarmi e respirare: Dovunque tu vada ci sei già – Jon Kabat Zinn
Quando ho letto ho letto ho letto la cascata delle tue parole pensavo che forse le avevi tratte da questo autore tanto erano in linea.
Bello il gioco che proponi a inizio seduta: almeno lì un invito a superare il formalismo del “sto bene”, ascoltarsi togliendo le corazze e lasciarsi andare al gioco sotterraneo delle emozioni.
❤❤❤
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In realtà non ho letto questo libro che proponi, ma provvedo quanto prima!! Grazie❤️
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❤ a te
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L’ha ribloggato su Alessandria today.
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